Siamo in crisi: vale a dire stiamo combattendo una guerra globale/Riacquistare credibilità: avviare una seria e coerente stagione di riforme che siano strutturali

Rendere il cittadino partecipe delle scelte

di Giovanni Postorino

Le riforme (istituzionali ed economiche) da porre in ambito europeo, improcrastinabili e condivisibili da chi come me crede che nell’unità dell’Europa si giochi il futuro di pace e prosperità di interi popoli, non saranno mai di per sé sufficienti per rispondere all’attuale crisi se i singoli Paesi non metteranno in atto al loro interno politiche che preferisco definire "virtuose", piuttosto che "di rigore".

Per quanto riguarda l’Italia, la principale mancanza è la cronica inaffidabilità in merito ad una coerente azione riformatrice, in grado di interveni su tutti i gangli ormai incrostati della società (economia, welfare, istituzioni, pubblica amministrazione, università, magistratura, ecc…) al fine di porre le condizioni per risollevare l’economia reale e benessere alla popolazione, trasformando la crisi in occasione di progresso.

Su tali aspetti, la nostra classe politica e dirigente ha perso tutta la propria credibilità e si va ora esaurendo anche l’"effetto Monti", in quanto dopo i primi (timidi) provvedimenti sono mancati del tutto interventi coerenti per riformare il Paese, per ridurre le tasse e il debito pubblico.

Del resto, non appena la crisi è sembrata sotto controllo, sono riemersi i vecchi mali italici: una classe politica preoccupata solo di perpetuare se stessa; i veti a qualsivoglia riforma da parte delle caste sindacali, professionali, ecc.; l’indecisione e gli equilibrismi messi in atto dal Governo.

Tutto ciò ha dato ai mercati, ancora una volta, l’immagine di un Paese poco credibile, incapace di affrontare le riforme in modo serio senza ragionare in termini di tutela corporativa.

Partendo dalla ovvia considerazione che non basta porsi l’obiettivo di fare le riforme, vorrei a questo punto sottolineare brevemente due aspetti particolari che spesso sono trascurati e che attengono alla grave mancanza di "cultura delle riforme" e riscontrabile sia in termini di impostazione ideale, sia in termini di accettazione delle riforme stesse (pena la loro inefficacia de facto).

Fare chiarezza sull’impostazione ideale è importante perché significa avere il senso del momento storico che stiamo vivendo e, quindi, di una realtà economica irreversibilmente globalizzata.

A mio avviso, l’ispirazione di fondo che deve guidare il riformatore è la stessa che deve guidare l’uomo che si dice liberale. Mettendo in pratica gli insegnamenti di Popper, liberale è colui che lotta contro ogni forma di monopolio e di privilegio e che ha ben presente come ideale la società di Pericle e, quindi, si batte per una "società aperta" fatta di uomini liberi.

Questo è oggi quanto mai minacciato da rigurgiti neo-statalistici, da atteggiamenti protezionistici e corporativi, da proposte che partono dall’errato presupposto che il mercato sia causa di tutti i mali, senza considerare che, al contrario, dove vige l’economia di mercato si è avuta l’espansione più ampia delle libertà e dei diritti, e che senza libertà economica non può esserci libertà politica.

Nel nostro Paese è fin troppo radicata l’idea che il mercato crei diseguaglianze; che la competizione e il merito favoriscano i più forti; che lo Stato debba intervenire nel mercato per conseguire la "giustizia sociale" (termine privo di senso in una società aperta fatta di uomini liberi i quali possono usare le proprie conoscenze per il raggiungimento dei propri fini, per dirla con von Hayek).

E’ opportuno che si superino, quindi, certe impostazioni di politica economica in larga misura responsabili della situazione attuale: accrescere la spesa pubblica finanziandola con il debito o con l’aumento della pressione fiscale; intervenire con sussidi e finanziamenti pubblici per salvare ciò che il mercato condanna; imbrigliare le aziende in vincoli e procedure farraginose. Tutto ciò uccide il libero gioco del mercato, ingabbiandolo in un perverso sistema pubblico/privato di privilegi e corruzione alimentato da aspettative clientelari che alla lunga soffoca il Paese.

L’altro aspetto accennato prima richiede che ci si premuri di considerare anche il livello generale di accettazione e accoglimento delle riforme, affinché queste siano realmente efficaci.

In generale, bisogna rilevare la convenienza politica di affrontare le riforme tutte complessivamente, in quanto ciò garantisce effetti positivi in un’ottica di compensazione tra miglioramenti e peggioramenti, di settore in settore, di categoria in categoria. Evidenziare quest’aspetto aumenterebbe sensibilmente il livello di accettazione da parte di coloro che subiscono le riforme.

Ma per far sì che queste siano maggiormente condivise e meno subite, occorre informare e rendere partecipi i cittadini delle scelte da adottare, evidenziando loro i costi dell’immobilismo e gli enormi vantaggi che derivano dallo sfruttamento delle potenzialità inespresse.

E infine, poiché non basta approvare nuove norme, occorre soprattutto superare i grandi ostacoli posti dall’inerzia e dal conservatorismo della pubblica amministrazione, che sappiamo essere chiamata all’interpretazione e all’attuazione delle norme stesse.Concludendo, per riacquistare credibilità bisogna avviare una seria e coerente stagione di riforme strutturali, portata avanti da una classe politica e dirigente rinnovata e capace, condotta con la giusta impostazione ideale, puntando alla massima accettazione delle riforme stesse da parte di chi le subisce e di chi le deve attuare.

Solo così riusciremo a scampare agli effetti più deleteri della crisi, o almeno ne abbrevieremo la durata. E’ una battaglia necessaria, non solo politica ma anche culturale.

Diversamente sarà solo un inesorabile disastro.